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7 Settembre 2021

La scienza al servizio di tutti

Tratta dalla pubblicazione "Dante e l'ambiente"

Se percorriamo il cammino intellettuale di Dante osserviamo che la sua forma mentis, che lo portava all’ordine e alla sistematicità, doti sviluppate con la preparazione scientifica da lui stesso cercata, informa di sé ogni sua opera, per manifestarsi in modo ancor più evidente verso la fine della sua vita, come conclusione e apoteosi di una scelta intellettuale e poetica insieme.
Dal 1304 al 1307, nei primi anni dell’esilio, i più tormentati, Dante scrisse due trattati, il Convivio e il De vulgari eloquentia, preparatori alla Commedia e un certo numero di Lettere (ne sono rimaste 13). Al di sopra delle tristissime condizioni di vita, egli poneva il suo dovere di testimone della verità, quale intellettuale impegnato nella vita del suo Paese: un messaggio che sarà raccolto secoli dopo dal Foscolo e da molti uomini di cultura dopo di lui, come lui sulle vie dell’esilio.
Dal Convivio di Dante fino ad oggi, all’uomo di cultura viene assegnata una funzione etica e un impegno sociale che lo rende libero di fronte al committente, Chiesa o principe che sia, e le sue opere dovranno poter essere fruite da tutti perché a tutti devono parlare: scienza e sapienza assumeranno da allora il valore di servizio.

La lettura scolastica dei testi danteschi che emargina la poesia intellettuale di Dante, e quindi la centralità della sapienza come via verso la felicità in terra, per isolare e prediligere solo i momenti lirici, ha naturalmente difficoltà a comprendere la vastità dell’architettura del corpus dantesco, e ancor più il senso e il valore del De aqua et terra (1320) e delle Egloghe (1318-21). Ambedue le opere sono in realtà abbastanza brevi, di una decina di pagine in edizione moderna, scritte in latino, sembrano battute di un dialogo che allude a cose già espresse ampiamente, com’era infatti. Se non si collegano nel contenuto e nella forma a tutto il corpus dantesco non si coglie la loro appartenenza ad un registro poetico chiarissimo ai contemporanei, quello di Dante “Philosopho poetico”.

Dante avrà sempre presente il pensiero di Aristotele: “Tutti li uomini desiderano naturalmente il sapere” e per raggiungerlo devono guardare la natura e il creato con gli occhi dello stupore della meraviglia. Per questo la meraviglia forma il tema centrale del primo canto del Purgatorio, perché è lei che ci spinge a conoscere il creato per scoprirvi i segni del Creatore. Un creato che ha però leggi sue proprie che l’uomo ha il compito di scoprire.

Il Convivio è un testo chiave per comprendere il futuro percorso letterario di Dante che ora non solo sa per chi deve scrivere, ma sa anche in che lingua si dovrà esprimere per arrivare a tutti noi.
Negli ultimi quattro capitoli del Convivio troviamo l’inno più alto che Dante abbia scritto alla lingua italiana e qui si dimostra veramente innovatore, se non profeta. Il volgare sarà “la luce nuova” e il “sole nuovo” destinato ormai a prendere il posto del latino come veicolo del sapere, sarà destinato a illuminare coloro che non conoscendo l’antica lingua sarebbero costretti nelle tenebre dell’ignoranza, così commenta il Vasoli nella sua fondamentale introduzione che esamina ogni significato del trattato dantesco. Comunicare il sapere nella lingua che ne permetta la più vasta comprensione diventa un imperativo morale a cui Dante sa di dover obbedire.

Il De vulgari eloquentia in un certo senso completa il messaggio del Convivio, pur marcando con la scelta linguistica la diversità del pubblico al quale si rivolge. Questa opera fu iniziata nel 1303 e rimase, come il Convivio, incompiuta. Si rivolge agli uomini di cultura nella lingua che per loro era la più consueta, il latino, per render conto della sua scelta del volgare annunciata nel Convivio, una scelta che si basa su una analisi delle lingue in generale e del volgare italiano in particolare.

Nessuno prima di Dante aveva tracciato la storia della lingua da Adamo in poi (il tema tornerà nel Paradiso proprio in bocca di Adamo) pur restringendo il campo d’analisi ai popoli dell’Europa e tra di loro a quello latino. La cui lingua, il latino, si diramava in tre ceppi quelli dell’oil, francese, quello dell’oc, provenzale e quello del sì, italiano. La sistematicità di Dante si fa ancora più schematica quando egli distingue nel volgare italiano 14 dialetti, usati in 14 regioni, 7 al di là e 7 al di qua dell’Appennino e descrive le caratteristiche di ciascuno, in pratica disegna il primo atlante linguistico d’Italia.

Basta ora ricordare la conclusione alla quale Dante arriva, quando afferma che nessuno di quei dialetti potrà mai ambire a divenire l’unica lingua adatta ad esprimere ogni tipo di pensiero e sentimento di una società proiettata verso il futuro com’era quella nella quale Dante viveva.
Bisognava tentare una sintesi di tutti i dialetti italiani: per questo egli “inventa” il “volgare illustre” una lingua ideale che egli porterà alla perfezione sia in prosa che in poesia.

L’articolo, sintetizzato e adattato alla pubblicazione sul web, è tratto dalla pubblicazione “Dante e l’ambiente”, a cura di ARPAV, disponibile gratuitamente on line e può essere letto integralmente dalla pagina 27, con il titolo “Amoroso uso di sapienza”.

Le iniziative dedicate a Dante del Parco dei Castelli Romani fanno parte del calendario della Regione Lazio “A riveder le stelle

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