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La flora della Riserva Lago di Vico

    La flora della Riserva Lago di Vico e, in generale, dei Monti Cimini, risulta essere di grande interesse per lo studio del passato geologico recente, seppur nel suo insieme risulta limitata nel numero di specie dalla presenza del terreno di origine vulcanica. Avendo le piante un apparato radicale che oltre alla funzione di sostegno svolge il ruolo di assorbimento di acqua e sali minerali, riescono a vivere e perpetuarsi solo le più adatte al substrato lasciato dall’attività eruttiva cimino-vicana (terminata all’incirca 90.000 anni fa). Sono le così dette specie “acidofile” quelle che troviamo con maggior frequenza, sia per la natura dei componenti della roccia vulcanica sia per l’abbondante lettiera di foglie e rami in decomposizione dovuta all’estesa copertura boschiva delle pendici dei Monti Cimini. Molte delle specie vegetali comuni nelle vicine montagne appenniniche di natura calcarea qui non le troviamo affatto, mentre altre specie, piuttosto rare e sporadiche altrove, qui prosperano in gran quantità.

    I suoli che si formano dalla disgregazione del substrato vulcanico sono notoriamente molto fertili, ricchissimi di nutrienti e spesso freschi e profondi. Anche il clima risulta favorevole allo sviluppo rigoglioso delle piante: la vicinanza con la costa tirrenica permette alle nuvole cariche di aria umida di scaricare le piogge con una certa frequenza nell’arco dell’anno. Il risultato di tutti questi fattori è una crescita relativamente rapida di alberi che in altre condizioni impiegherebbero tempi molto più lunghi a raggiungere dimensioni colossali come molti faggi e cerri presenti all’interno della Riserva. Queste due specie sono indubbiamente le più rappresentative dei boschi dei Monti Cimini: il cerro (Quercus cerris) più comune sui versanti assolati, il faggio (Fagus sylvatica) su quelli più freschi. Quest’ultima specie, molto diffusa attualmente in Appennino a quote tra 1000 e 1800 metri, rappresenta un interessante ? relitto fitogeografico; durante il periodo glaciale il suo areale di diffusione arrivava fin quasi alla costa marina e quindi a quote molto più basse di quelle attuali. Sul finire dell’ultima glaciazione il faggio si è ritirato verso le zone più elevate, lasciando lembi di faggete a quote inferiori dove le caratteristiche ecologiche ne permettevano la sopravvivenza: è per questo che si parla di “faggete depresse” rivolgendosi alle faggete del Lazio settentrionale (oltre a quelle dei Monti Cimini esistono interessanti formazioni anche ad Oriolo Romano e sui Monti della Tolfa).

    Insieme al faggio, in questi boschi troviamo un insieme di specie caratteristiche tra cui il piccolo pungitopo (Ruscus aculeatus), dalle foglie spinose e dalle bacche rosse, o l’agrifoglio (Ilex aquifolium) con le stesse caratteristiche ma di taglia maggiore e forma arbustiva. Questa pianta è protetta, oltre che all’interno della riserva naturale, su tutto il territorio regionale (Legge Regionale n.61 del 1974). Altre specie arboree comuni nei boschi della Riserva naturale sono gli aceri (Acer spp), il carpino bianco (Carpinus betulus) il carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’orniello (Fraxinus ornus). Al contario meno diffuso e molto localizzato risulta il leccio (Quercus ilex). Il castagno (Castanea sativa) merita un discorso a sé stante in quanto si tratta di una specie di interesse agronomico molto diffusa all’interno della Riserva, principalmente per la raccolta delle castagne e secondariamente per produrre legname da paleria. Talvolta troviamo il castagno anche all’interno dei boschi naturali dove però con il passare degli anni tende a soccombere sovrastato dalle altre specie più competitive. I castagneti da frutto, con esemplari spesso enormi e dalle chiome polimorfe, offrono scenari davvero suggestivi, in particolare nella colorata veste autunnale. Peccato che la conduzione agricola moderna sia eccessivamente improntata alla meccanizzazione, alla lavorazione dei suoli per facilitare la raccolta, pratica che determina la conseguente perdita di biodiversità in un ambiente potenzialmente molto ricco di specie vegetali ed animali.

    La fascia di terreni coltivati intorno al lago che vediamo ai giorni nostri, particolarmente nei settori settentrionale ed orientale, altro non è che un ambiente creato dall’uomo attraverso opere di ingegneria idraulica perpetuate nei secoli. Prima della civiltà etrusca, popolo famoso oltre che per la costruzione di splendide sepolture anche per le grandi competenze degli ingegneri idraulici del tempo, il livello del lago era di alcuni metri più alto di quello attuale: quasi tutti i fertilissimi terreni oggi diventati una monocoltura di nocciolo (Corylus avellana), erano in antico sommersi dalle acque del lago. Sono stati “conquistati” attraverso ripetute opere di drenaggio scavate nella roccia. Prima dell’ampia diffusione del nocciolo, che in questo luogo trova condizioni ottimali per produzioni di elevata qualità e quantità, i terreni erano in gran parte gestiti a seminativo e pascolo, una realtà che oggi è quasi scomparsa. L’unico pascolo ancora utilizzato è quello del Pantanaccio, nella parte più settentrionale del lago che, come dice il nome, risulta spesso allagato e non idoneo alla coltivazione. Qui tra giunchi (Juncus spp) e cespugli di arbusti spinosi come il rovo (Rubus ulmifolius), il prugnolo (Prunus spinosa) ed il biancospino (Crataegus monogyna), pascolano tutto l’anno mucche e pecore sorvegliate dai loro anziani pastori, forse gli ultimi testimoni di un’epoca ormai finita nei libri di storia. Le sponde del lago sono in gran parte ricoperte dalla cannuccia di palude (Phragmites australis), una specie importantissima per l’ecosistema del lago. Il suo apparato radicale rizomatoso svolge un importante ruolo di filtraggio e consolidamento delle sponde, mentre il suo apparato vegetativo a ciclo annuale svolge una importante funzione di accoglienza per molti uccelli ed altri animali che vivono e nidificano al suo interno. Lungo le sponde, ma non solo, possiamo trovare splendidi esemplari di salice (Salix alba) un tempo molto utilizzati per produrre ceste, manufatti vari o legacci utilizzati nella vita quotidiana. A tale scopo venivano potati tutti gli inverni per avere a disposizione nuovo materiale per l’anno successivo. Abbandonata da molto tempo la pratica della capitozzatura, alcuni salici sono diventati talmente grandi e maestosi che spesso nelle giornate ventose si spezzano con facilità o peggio ancora vengono divelti con tutte le radici in giornate particolarmente ventose. Quando cadono in acqua vengono prontamente utilizzati come comodi posatoi dagli uccelli di passaggio o come nascondiglio dai pesci del lago.

    Sempre lungo la fascia ripariale possiamo trovare il pioppo (Populus nigra) con qualche vetusto esemplare, l’ontano (Alnus glutinosa) e la farnia (Quercus robur) solo con giovani esemplari frutto di un tentativo di introduzione. Anche dentro il lago troviamo interessanti specie di ? piante vascolari, quelle che appartengono appunto alla vegetazione acquatica. Oltre che a depurare le acque del lago, queste piante offrono un luogo ideale alla vita dei pesci e costituiscono una fonte alimentare sia per i pesci stessi che per molti uccelli acquatici. Tra le specie più caratteristiche troviamo il potamogeto (Potamogeton natans). Le alghe, che ricordiamo essere delle forme vegetali completamente diverse dalle precedenti, sono anch’esse importanti ma più note all’opinione pubblica per le così dette “fioriture” causate dall’eccesso di sostanze azotate, usate (e talora abusate) in agricoltura, che finiscono nel lago. Nel caso dell’alga rossa, producono una sostanza tossica pericolosa per ingestione.

    Le fioriture più caratteristiche che possiamo osservare in Riserva però sono quelle delle così dette “bulbose”, piante appartenenti alla classe delle ? monocotiledoni che producono fiori dai colori, dalle forme e spesso dai profumi, straordinari. Sul finire dell’inverno, quando il sottobosco è ancora pieno di luce e gli alberi privi di fogliame, inizia un susseguirsi di splendide fioriture di diverse specie di bulbose, talvolta talmente abbondanti da formare dei fitti tappeti colorati. Tra le prime specie a fiorire, a volte già a fine gennaio, citiamo i crochi (Crocus neapolitanus), i bucaneve (Galanthus nivalis), le scille (Scilla bifolia). Degne di nota sono anche l’elleboro (Helleborus bocconei) e la dafne (Daphne laureola), anche se meno appariscenti in quanto completamente verdi anche nei fiori. Tra gli arbusti iniziano a schiudersi le piccole corolle giallo intenso del corniolo (Cornus mas). Da marzo in poi compaiono i profumatissimi narcisi dei poeti (Narcissus poeticus), la colombina maggiore (Corydalis cava) nelle due forme cromatiche rosa e bianca, i ciclamini (Cyclamen repandum), ed a seguire il sigillo di Salomone (Polygonatum odoratum). Con l’avanzare della primavera e fino a giugno inoltrato si susseguono splendide e ricchissime fioriture: nei campi rimasti liberi dai noccioleti, nelle radure e a bordo strada troviamo ad esempio la ginestra (Cytisus scoparius); lungo i fossi ed in palude spiccano i cardi (Onopordum illyricum) ed il tasso barbasso (Verbascum thapsus). Questi ultimi hanno trovato in modo diverso l’espediente per non farsi mangiare dal bestiame al pascolo: con le foglie spinose una e con le foglie pelose l'altra. Tra i fiori più appariscenti osservabili sui Monti Cimini segnaliamo il giglio di San Giovanni (Lilium bulbiferum var. croceum), dalle vistose corolle arancioni che come dice il nome fiorisce nel periodo del solstizio d’estate (San Giovanni cade il 24 giugno). Nei pochi posti dove il terreno è rimasto indisturbato da molti anni, quindi dove non ci sono state lavorazioni agricole o grufolate dei cinghiali che prolificano ormai su tutta la penisola, è ancora possibile imbattersi in qualche esemplare di orchidea spontanea come la precoce ed endemica Dactylorhiza romana tipica dei castagneti, la Orchis mascula (osservata in un’unica stazione), il Limodorum abortivum dai caratteristici steli floreali viola privi di foglie, la minuscola ma molto profumata Epipactis microphylla, assai diffusa nei punti più luminosi del bosco o la rara Epipactis placentina, che fiorisce in faggeta molto tardivamente e solo negli anni in cui non si verificano condizioni siccitose. Sicuramente in passato le orchidee spontanee erano molto più numerose su questo territorio: essendo piante perenni bulbose o rizomatose a ciclo di sviluppo molto lungo, hanno particolarmente sofferto i cambiamenti nell’epoca moderna apportati dall’uomo con i suoi macchinari. Si spera che la crescente sensibilità ambientale che va diffondendosi tra gran parte della popolazione locale possa permetterne la sopravvivenza negli anni futuri.

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